Milano da bere. Ancora


di Ivan Quaroni



Nasce nel 1987 l'espressione "Milano da bere" e subito diventa sintomatica dello stile di vita meneghino all'epoca del cosiddetto "edonismo reganiano", fortunatissima definizione coniata da Roberto D'Agostino. Erano anni in cui la città, governata dai socialisti di Craxi, sembrava definitivamente lasciarsi alle spalle le tensioni degli anni di piombo e del conflitto ideologico.
Galeotto fu uno spot ideato dal pubblicitario Marco Mignani per l'amaro Ramazzotti, che fotografava la ritrovata gioia di vivere dei milanesi nell'era del rampantismo degli yuppies. In quella pubblicità epocale, la città, colta in una veloce carrellata dall'alba al tramonto sulle note di Birdland dei Weather Report, veniva presentata come un luogo piacevole, dove la febbrile operosità si fondeva con una bellezza sobria e seducente.
Oltre un secolo prima, in una lettera a Capuana, Verga scriveva:
Dall'epoca di Verga ai giorni nostri, le peculiarità di Milano sono rimaste invariate. Il suo carattere, insieme austero e accattivante, ha conquistato il cuore di molti artisti che qui hanno trovato fortuna. "Milano è una città che sfugge alle semplificazioni immediate e chiede tempo e perspicacia per essere conosciuta e amata", ha affermato l'arcivescovo Dionigi Tettamanzi.
Crocevia di popoli e culture e laboratorio creativo della metropoli postmoderna, il capoluogo lombardo ha dato ospitalità a una moltitudine di artisti. Basti pensare a quelli che, in epoche diverse, si sono succeduti tra le bianche piastrelle del Bar Jamaica, da Gianni Dova e Roberto Crippa a Bruno Cassinari ed Ennio Morlotti, fino a Lucio Fontana, Valerio Adami e ai poeti Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo.
Oggi, una nuova schiera di artisti - nativi, residenti o semplicemente di passaggio - interpreta in chiave pop la città del biscione, che Eugenio Montale aveva definito come "un enorme conglomerato di eremiti". L'ex capitale morale del paese, alle soglie dell'Expo 2015, ha finalmente l'opportunità di ridisegnare non solo la propria fisionomia urbanistica, ma anche la propria identità artistica e culturale.
Gli undici artisti chiamati a dare il proprio contributo visivo per una nuova rappresentazione di Milano sono, come da tradizione, provenienti da ogni parte d'Italia. Dalla Sicilia arrivano Dario Arcidiacono, Samuel Sanfilippo e CrazyOne; da Padova, Massimo Giacon ed Eloisa Gobbo; da Livorno, Michael Rotondi; da Genova, Giordano Curreri; dalla provincia anconetana, Fidia Falaschetti; mentre sono milanesi solo Giacomo Spazio e Tiziano Soro.
Infatti, come ha affermato lo scrittore e critico Tommaso Labranca in una recente intervista, "per essere un vero milanese non serve il pedigree con generazioni di meneghini alle spalle. Serve solo capire che questa non è la città dell'esibizione, tutt'altro. E che i bauscia vengono dalla limitrofa Brianza" (2).
Massimo Giacon e Giacomo Spazio sono tra coloro che hanno vissuto, da testimoni, la Milano da Bere degli anni Ottanta. Massimo Giacon è stato - ed è tuttora - uno dei protagonisti della stagione gloriosa del fumetto italiano, artista, musicista, designer, che con il suo segno ha saputo interpretare con leggerezza e ironia lo stile postmoderno, rendendolo un originale marchio distintivo. Suo è il disegno di un tessuto prodotto proprio in quegli anni da Memphis, il gruppo di architetti e designer fondato da Ettore Sottsass e impegnato nella fabbricazione di oggetti e complementi d'arredo postmoderni. Si tratta di un allegro pattern, costellato di figure di UFO e alieni che paiono usciti da un cartone animato di Hanna & Barbera. Perfetta espressione dello stile fumettistico di Giacon, ma anche della tipica verve festaiola meneghina è, invece, l'illustrazione che rappresenta i momenti salienti di un turbolento party, allestita come una straordinaria sequenza di episodi simultanei.
Artista eclettico, musicista, designer e produttore, Giacomo Spazio è considerato uno dei guru dell'underground e della controcultura milanese. Il suo lavoro mescola serigrafia, disegno e pittura all'insegna di uno stile spurio, in cui convergono echi di Punk, Situazionismo, Pop Art e Graffitismo. L'approccio critico alla realtà, segno distintivo dell'opera di Giacon, prende corpo in due opere per certi versi antitetiche. Quella in bianco e nero, che raffigura un minaccioso terrorista stagliato sullo sfondo della Torre Velasca, con tanto di scritta in arabo, è un'immagine che riattualizza la Milano di piombo, celebrata nei film "polizziotteschi" degli anni Settanta. L'altra opera, al cui centro campeggia la frase "Are you looking for a little action", prende di mira il patinato immaginario della moda milanese e, con un gesto in bilico tra Duchamp e Andy Wharol, trasforma il ritratto di Giorgio Armani in un'affascinante, quanto tenebrosa, icona post-punk.
Un feroce approccio critico alla Milano odierna è quello espresso dalla generazione di artisti rappresentata da Dario Arcidiacono e Giordano Curreri, che negli anni Novanta, di pari passo con i giovani scrittori Cannibali, elaboravano un linguaggio pop dai contenuti dissacranti e irriverenti.
Un'amara meditazione su quel che resta degli anni Ottanta è quella espressa da Giordano Curreri, che illustra la misera eredità del decennio edonista. Il primo dipinto, intitolato Dietro Liceo, davanti Museo, mostra una donna che, come spiega l'artista, "pensa di avere la stessa età di 30 anni fa" e fatica ad accettare il proprio invecchiamento, continuando a vestirsi alla moda. L'altra opera, sarcasticamente intitolata Evviva la fica, evviva Milano, denuncia la triste condizione di quegli uomini di mezz'età che, nell'illusione di mantenersi giovani, intrattengono rapporti "amorosi" con scaltre ventenni. Entrambi i lavori sono caratterizzati da uno stile pop espressionista, che ci restituisce la dimensione psicologica dei soggetti attraverso parossistiche ipertrofie e mutazioni anatomiche.
Ai problemi dell'immigrazione nel capoluogo lombardo sono dedicati i dipinti di Dario Arcidiacono, che con il suo esuberante stile pop, parente stretto del fumetto e dell'illustrazione, conduce un'attenta disamina dei problemi che affliggono la società contemporanea, spesso saccheggiando l'immaginario ansiogeno delle teorie del complotto. Nell'opera Giovane migrante con insolazione devastante, l'artista offre una rappresentazione, insieme drammatica e parodistica, delle immani fatiche di un povero profugo. Curiosamente, sulla maglietta bianca dell'esule compare il nome della Raytheon, un'azienda americana produttrice di armi. Sembra quasi che Arcidiacono voglia suggerire una visione più globale degli odierni disequilibri economici. Lo dimostra anche la sua divertente revisione del blasone visconteo, simbolo di Milano, dove il biscione si trasforma in un minaccioso dragone rosso, simbolo della massiccia immigrazione clandestina cinese.
Con il suo esuberante stile iper-barocco, parente prossimo del graphic design e della decorazione d'interni, Eloisa Gobbo affronta due piaghe tipiche della città, lo stile di vita frenetico e l'eccessivo consumo di cocaina. Quest'ultimo assume le sembianze di un'allegoria, ascrivibile al genere pittorico delle vanitas. Si tratta di un tripudio floreale in foggia di teschio che metaforicamente incombe, come un moderno memento mori d'inquietante bellezza, sul popolo festante delle notti meneghine. Il grande triciclo, impresso sullo sfondo del reticolato urbano, è invece un Elogio alla lentezza, una sorta di manifesto di slow life per la città più dinamica dello Stivale, che invita i milanesi a ritrovare il piacere di una rilassante passeggiata nei parchi cittadini e a godere della pacata indolenza di una gita "fuori porta".
Con un approccio fresco e immediato, che mescola squarci biografici e schegge generazionali, Michael Rotondi racconta una città marginale, abitata da personaggi che abitano in case affacciate sulle inquinate arterie della circonvallazione e sorbiscono bevande economiche come la spuma, il ginger o la Milan Cola, variante ambrosiana della Coca Cola. È il caso dell'opera intitolata Circonvalla's house has more style, dove il triplice volto del protagonista fa il verso alle rappresentazioni simultanee di Giacomo Balla, esponente del Futurismo che proprio a Milano ebbe i suoi natali. Invece, al centro dell'installazione Memo Box, composta di nove piccole tele, c'è ancora una volta un riferimento al cinema "polizziottesco". La scena, ambientata nei Settanta, raffigura una sparatoria con la scritta Milano Odia, riferimento al celebre film diretto da Umberto Lenzi e interpretato da Thomas Milian nel ruolo del sadico rapinatore Giulio Sacchi. Gli altri frammenti, che fungono da cornice alla scena centrale, formando una croce simbolica, mostrano momenti di vita quotidiana e marchi di bevande come Milan Soda e Campari.
Fidia Falaschetti si concentra su due luoghi comuni che identificano la recente storia sociale e cronaca politica del capoluogo lombardo, la vicenda giudiziaria di Mani Pulite, che ha segnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, e la tradizione dell'aperitivo, che a Milano, più che altrove, ha influenzato i comportamenti di consumo dei cittadini. Con il suo approccio lieve, da vero trickster, l'artista inventa un nuovo simbolo tridimensionale per l'ex capitale morale d'Italia, una valigetta, simbolo dei broker di Piazza Affari, con i colori dello stemma ambrosiano (la croce rossa in campo bianco), riempita di saponette verdi che richiamano la pelle del biscione.
Happy Hour è, invece, una scultura assemblata, composta di due elementi salienti, un accumulo caotico di automobili sormontato da una sveglia che indica l'ora dell'aperitivo. Questo lavoro di Fidia Falaschetti ironizza sull'abitudine dei milanesi di ritrovarsi, alla fine di una giornata di lavoro nei bar, nei caffè, nei pub per bere un bicchiere in compagnia, proprio come nello storico spot di Mignani.
Con la sua pittura retinica, ottenuta tramite una meticolosa sovrapposizione di stencil e virata nei toni del grigio e dell'azzurro, il siciliano Crazyone ci introduce in una dimensione più intima, venata di malinconia. L'artista indaga la realtà da un punto di vista defilato, affidandosi all'eloquenza d'immagini quotidiane, che il suo stile cristallizza in una dimensione senza tempo. Nei suoi due ritratti, uno ambientato in un interno domestico, l'altro in un imprecisato luogo esterno, Milano perde ogni connotazione geografica per divenire, piuttosto, il sintomo di una condizione interiore, di una disposizione emotiva e spirituale che azzera il rumore di fondo della metropoli e lascia campo all'espressione dello spleen esistenziale.
Una Milano metafisica, desolata come un piano sequenza di un film di Michelangelo Antonioni, è quella descritta da Samuel Sanfilippo, che attraverso le sue tele racconta la solitudine di uomini, donne e animali che vivono in una condizione di marginalità. Per loro Milano non è una città accogliente, inclusiva, ma un luogo di sofferenza ed espiazione, che offre rare opportunità di catarsi. Un poeta, un'equilibrista, una pecora diventano simboli di uno stato d'animo dolente, di un'afflizione spirituale. In Happy Hour un locale, solitamente deputato all'incontro e allo scambio tra persone, appare deserto come un saloon di una dimenticata cittadina del West, mentre in La Madonnina, Milano diventa una distesa di tetti, come la Londra di Mary Poppins, cui il personaggio dell'equilibrista allude. Un poeta solo a Milano è, infine, un ritratto di sconsolante bellezza, un simbolo di quel sentimento di cupo isolamento cui sovente si abbandonano gli artisti che in ogni tempo hanno vissuto nel capoluogo ambrosiano.
Il contributo di Tiziano Soro è tipico del milanese che vive ai confini della metropoli, in quella cintura di confine con la campagna in cui abbondano orti e cascine. In questo territorio liminale, dove i campi si stagliano sullo skyline cittadino, l'artista elabora uno stile pittorico sorprendentemente sospeso tra suggestioni californiane di matrice surf e contenuti agresti. Con il suo stile ibrido, che mescola figurazione realista e astrazioni ornamentali in chiave pop, Soro descrive la città come una campitura di colori flat, un orizzonte piatto, intravisto tra gli alti steli del granturco in un assolato pomeriggio feriale. L'etere, così come lo osserva l'artista dalla sua dimora campestre, somiglia a una giungla di parabole e antenne, una visione stridente, simile a quella che si può avere dalle parti di Segrate o di Milano 2, dove sorgono i quartieri generali di Mediaset. In tale frangente, la scultura Il Santo dell'Orto diventa l'altare votivo di un'inedita religione post-moderna frammista di paganesimo agricolo e scetticismo urbano, un giardino dei Getzemani per i vessiliferi di una nuova boheme folk.


1) Giovanni Verga, Lettere a Luigi Capuana, a cura di G. Raya, Le Monnier, Firenze, 1975.

2) Il "Gran Milàn" di Tommaso Labranca, intervista a cura di Paola Biribanti per il sito Latitudine X, 29 settembre 2010.