La pittura di Andrea Sardi

Dal colore al silenzio bianco

a Milano dal 10 al 24 novembre 2005.


Dopo l’ascetico razionalismo e l’asettico iconismo mass-mediologico caratteristico dell’arte degli anni Sessanta-Settanta, con le correnti della post-avanguardia, negli anni Ottanta si è riaffacciata alla ribalta artistica un’esuberante sensualità : un ritorno alla materia pittorica, al piacere del dipingere e del percepire la materia e la pittura. Ma c’è stato anche un massiccio ritorno alla figurazione: la Transavanguardia, con le sue connotazioni mitopoietiche o ironico-parodiche è, nel bene e nel male, l’espressione più significativa di questa brusca inversione di rotta dell’arte visiva alla fine degli anni Settanta-inizio anni Ottanta. In questa linea di recupero dei valori fisici della pittura rientra anche il lavoro di Andrea Sardi, pittore sin dall’adolescenza. Inizialmente orientato verso una figurazione “espressionistica” e cromaticamente eclatante, il suo non è mai semplice lavoro astrattivo-stilizzante, ma immaginazione creativa e uso acuto e pungente dei frammenti del reale. Nessuna interpretazione del contesto storico, ma metafora errante tra il simbolico e l’immaginario. Fiaba e realtà si annodano inscindibilmente, in questa pittura, dramma e sogno si snodano reciprocamente, in un contesto in cui l’artista salva i fantasmi della visione ottica, ma li apre all’invisibile col caricarli di una tensione serpeggiante che “elettrizza” le figure, e le spinge verso una sorta di esplosione energetica.

Come i transavanguardisti o i nuovi espressionisti tedeschi, l’artista italiano punta decisamente, lungo gran parte del suo viaggio nella pittura, sulla figura umana. Ma se i tedeschi tendono a convogliare il senso di travaglio del reale in una tormentata, tragico-grottesca espressività del corpo umano, Sardi consegna la tragedia e il mistero dell’esistenza a figure di eleganza malinconica, silenziose e mute, a delicati e araldici volti e corpi di donna, in cui si avverte lo studio di Modigliani e Matisse.
Inizialmente, la pittura di Andrea Sardi, pur non potendosi definire pittura materica, punta alla densità delle masse, alla pienezza massiccia dei volumi. Spessa e plastica, accesa da bagliori vividi (blu, gialli, rossi), la sua stesura pittorica si espande con potenza. Si tratta di una strategia di avvicinamento totale, teso, avvolgente, alle figure, agli oggetti, alle atmosfere. E’ una sorta di “espressionismo surreale”, carico della sensualità della materia-colore, saturo delle sue tensioni interne, che supera ogni distanza dall’osservatore, come se l’osservatore e la figura, il paesaggio, o l’intérieur, fossero a contatto di sensi.
Questa pittura si situa sul crinale tra il visibile e il visionario. L’artista plasma uno spazio analogico, fatto di familiare e di ignoto: di qui il fascino onirico dei suoi spazi dai cromatismi accesi, “turbati” da un illogico sovrapporsi di rappresentazioni, che rinvia alle esperienze della fotografia e agli effetti di dissolvenza incrociata del cinema.
Nell’ultima fase del suo lavoro, Sardi punta invece alla leggerezza e alla rarefazione. Opera sul proprio universo cromatico un’austera limitazione, che si rivela radice di inedite, intense emozioni coloristiche : l’artista ci consegna lavori dove la luce assoluta del bianco - appena ombreggiata da residue sagome figurali - regna come pienezza del vuoto, come purezza, solitudine, silenzio. Il “silenzio bianco”, come dice Kandinskij, è “suono supremo, impercettibile”, intrinsecamente collegato alla nascita, alla comparsa di un “nuovo linguaggio”. Infatti, nella tradizione alchemica, il bianco caratterizza quella fase di trasformazione della materia che è definita “albedo”: alba, aurora dell’essere, freschezza nativa. I trattati alchemici parlano sovente del processo di sublimazione spinto fino a ottenere uno zolfo bianco come neve. Anche nella pittura di Andrea Sardi si realizza una sorta “sublimazione”: un processo attraverso il quale la sensualità dei suoi corpi femminili si distilla e si sublima sino a diventare una sorta di dimensione spirituale, e sacrale. Un linguaggio alieno al divenire come gestualità quotidiana ed effimera, e immerso invece in un tempo immobile, quell’illo tempore che Eliade indicava come tempo del mito. L’espressione formale si fa pura luce nelle vibrazioni misteriose di un materia “sottile” che plasma apparizioni – più che immagini – oltre la pittura e la scultura. Veroniche, sindoni secolari eppure sacrali, dispiegate a custodire il segreto di un assoluto, eterno silenzio. In questo gioco di trasparenze e affioramenti, il bianco è il colore simbolo di quest’essere in potenza, che sembra affondare le proprie radici nell’ipotesi avanzata da Vladimir Solov’ev circa l’esistenza di un “nulla positivo”, perennemente suscettibile di germogliare nel “tutto” dell’universo: una sorta di primavera originaria dell’essere.

a cura di Silvia Pegoraro


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