DAYDREAMERS

Alberica Jacini - Ada Mascolo
Andrea Massaioli - Gosia Turzeniecka


Testo critico di Cecilia Antolini


A Milano dal 12 al 30 novembre 2007




We are such stuff as dreams are made on
(William Shakespeare)


Attività che fugge le ferree regole della logica, quella onirica è notoriamente l’esperienza più comune della capacità tutta umana di immaginare, creare e mutare significato a ciò che si vive. Caratterizzato dalla paradossalità di un comportamento tanto attivo quanto passivo, di competenza però sempre di quello stesso cervello che ci guida nella veglia, il sogno è momento contradditorio in cui una soggettività produttiva e costruttiva è chiamata al gioco di sospensioni allusive di quel sonno che pretende l’assenza della coscienza.
È tuttavia dai fatti della vita, dalla loro consistente fisica materialità, come notoriamente ha sistematizzato Freud [Dovremo dunque riconoscere come del tutto accertato almeno un fatto: tutto il materiale che costituisce il contenuto del sogno deriva in qualche modo da ciò che abbiamo vissuto (…) Sarebbe però un errore supporre che una tale connessione risulti immediatamente da un semplice confronto; occorre invece ricercarla attentamente, e in tutta una serie di casi essa può rimanere celata a lungo] che i sogni traggono il loro corpo, mettendo in scena rimandi sempre incompleti di storie che restano da raccontare.
Si deve a Gaston Bachelard la teorizzazione di un Cogito Sognatore che, con buona pace del chiuso rigore dei Cogito cartesiani, nella veglia riorganizza in rêverie quella serie disorganica di immagini che fanno la loro apparizione nel sogno notturno; soggetto di un pensiero-non-pensiero in grado inoltre di restare, al contrario di quanto accade nella notte, “al centro del suo Io”. La dimensione produttiva del sogno, di quello notturno e, ancor più, della rêverie diurna, ci parla di un complesso possibile di immagini in grado di riportare costantemente verso le possibilità infinite di stratificazione dell’esperienza e della sua infinita rilettura e riattivazione.
Non è nuovo l’accostamento dell’arte a questa fetta di realtà, alla sua componente più libera e immaginifica, come non è nuova la notazione del porto franco disponibile per un’opera d’arte e precluso al sogno: quest’ultimo resta condannato, a meno di lunghe e probabilmente incomplete descrizioni verbali, alla vita chiusa e privata di una coscienza individuale. Nel lavoro dell’artista, al contrario, soprattutto in quel lavoro che trova il coraggio di evitare stampelle concettuali quando non evidentemente strutturali, le immagini sorte da quel fondo incomunicabile che è materia del sogno diventano immagini comuni, patrimonio condiviso e infinitamente condivisibile.

È a lavori che crescono lungo questo presupposto che si rivolge questa mostra: ad opere che trovano nell’esperienza dei propri autori il motore primo e principale di tutto il loro sviluppo. Immagini che si muovono senza l’ausilio di nessun preteso concettualismo, immediate e fluide come la tecnica che le realizza. I Daydreamers, più che sognatori ad occhi aperti, sono coloro che della rielaborazione fantastica della realtà sanno fare qualcosa di più che un’inconscia attività notturna, sono quanti, come Alberica Iacini, Ada Mascolo, Andrea Massaioli e Gosia Turzeniecka, rielaborano vissuti a partire dal versante ogni volta meno visibile e dicibile.
Il lato cui guarda Alberica Jacini è quello onirico e infantile, in cui convivono la dolcezza del sogno con l’ingenuità dello sguardo bambino. I suoi lavori non nascondono l’esperienza della maternità, così recente per l’artista da rappresentare in questo momento uno dei primi punti di riferimento, creazione che è cura e sorpresa ogni volta. L’approccio conosce quella pura naïveté che si ispira alla visione illusoria, per una resa fabulistica e a tratti narrativa di frammenti di sogni infantili.
Il lavoro della torinese Ada Mascolo è un procedere per velature, aggiunte graduali di colore in cui l’immagine, inizialmente solo presentita, viene in primo piano quasi inavvertitamente e sorprendentemente. Ogni opera nasconde così, dietro l’apparente levità della propria superficie, sotto l’innegabile femminilità che caratterizza la sensibilità dell’artista, il fondo abissale dell’immaginazione sfrenata, quella che non sempre si sa tenere a bada e che, anzi, a volte, conduce da sola il gioco. La scelta di un procedimento quasi per automatismo, in cui la stesura del colore non segue percorsi predefiniti e non vuole sottrarsi alle reciproche e incontrollate incursioni cromatiche, ha alle spalle la libertà automatica che scandisce le immagini del sogno; sono piani ogni volta separati e autonomamente definiti che però, per un fortuito gioco di associazioni, arrivano a incrociarsi e contaminarsi a vicenda. Conducendo sempre verso il risultato meno attendibile.
Ancora più radicati nella vita vissuta, solo all’apparenza più vicini a quei luoghi in cui la coscienza è più desta, sono i lavori di Andrea Massaioli e Gosia Turzeniecka.
Il primo si focalizza su vissuti psicologici e dettagli quotidiani molto semplici, di cui cerca il lato di imprevedibilità condiviso dalla tecnica stessa nei suoi colori estremamente diluiti. L’intero lavoro di Andrea Massaioli è improntato a una forma di immediatezza e semplicità universali, dove ai concetti si sostituisce un’emotività irrazionale e sfuggente come ogni vissuto consapevolmente avvertito. La stessa sfera emotiva è quella che, nei suoi lavori, riempie con significati nuovi apparenti simbologie codificate. Là dove, come ad esempio nelle forme di conchiglie che ricorrono sulle sue carte, si potrebbero presupporre abbinamenti già consolidati, l’artista sostituisce invece il puro amore per le forme, nei loro rimandi più liberi ad altrettanto indipendenti vissuti psicologici.
Le silouettes calligrafiche che contornano le figure della polacca Gosia Turzeniecka oppongono la propria leggerezza al rigore concettuale che le caratterizza: sono tutte frutto di un accurato e rapido lavoro dal vero che impegna l’artista nell’afferrare non solo le forme essenziali ma soprattutto il movimento e l’interazione tra i soggetti. Il gesto è chiamato alla massima velocità nel tentativo sempre rimandato di catturare quel nucleo irriducibile tra la riproduzione e la creazione ex novo.
Se il connotato che la lingua italiana dà dell’espressione sognare-ad-occhi-aperti ha in parte l’aspetto della condanna verso atteggiamenti di fuga dalla realtà, l’atto della rêverie in senso pieno e soprattutto in senso artistico è piuttosto una forma lieve e laterale di affrontare quel mondo che sempre di nuovo chiama alla sua manipolazione e rielaborazione. Il Daydreamer incarna così una forma d’arte, poco incline all’autogiustificazionismo, essenziale perché irrefrenabile, ficcante e autentica nella sua provocatoria leggerezza.