ANNAMARIA IODICE

o di un sacchetto che viene da lontano

di Cecilia Antolini




Vuoto, liso benché nuovo, insignificante nella sua quotidiana utilità: è ad un sacchetto di tessuto indiano, capitatole tra le mani tempo fa, che Annamaria Iodice affida un’immagine simbolica e sintetica del proprio lavoro, della propria visione del mondo.
Nel sacchetto: storie passate di mani che l’hanno tessuto, storie a venire di mani che potranno riempirlo. Ed è a storie così, punto d’equilibrio tra insondabile passato ed imperscrutabile avvenire, che guarda l’artista, alla ricerca di quell’istante sospeso in cui ogni cosa le appartiene prima di sfuggire via di nuovo. Individuale nella propria singolarità, voce sola che rifugge il clamore, Annamaria Iodice si pone al contempo, con la discrezione di un’arte sfumata, al centro di un universo dove si ammassano cose e persone che il suo occhio tenta di accarezzare, cogliere e, fin dove possibile, rappresentare. Perché sa, nella saggezza profonda di colori e pennelli, quanta responsabilità ci sia nel proporsi di ridipingere la nostra natura; quella natura, che sulla carta è fatta d’alberi e corsi d’acqua, scolora presto nella natura che è sfondo e scena aperta di ogni nostro accadere, investita di sensi eterni ma eternamente da riscoprire.
Nella povertà di un tessuto grezzo, tra le pieghe scomposte di un oggetto qualsiasi, si cela potere di scambio, parola che è gesto, raccoglimento e conservazione. Come in un piccolo involucro, protezione di ventre di madre, l’arte di Annamaria Iodice ha il sapore pungente della terra e dell’aria cui guarda, racchiuse in un’apertura senza confini e pertanto capace di togliere il fiato. È lì, dove tutto sembra disponibile e facilmente dipanabile, che fa capolino la più cupa inquietudine: il sentimento della fine, la consapevolezza totale di un inarrestabile ritorno alla cenere.
Ogni lavoro ripercorre così, sulla leggerezza della carta come sullo spessore del mattone, i profili perduti di memorie di nature, tra paesaggio visto, vissuto o forse ancora da visitare nell’attesa di essere nuovamente, ma sempre per la prima volta, riempito di senso.
Come un sacchetto che attende di riscoprirsi utile.


- Il tuo è un linguaggio silenzioso, estremamente intimo e, apparentemente, innanzitutto privato. Sembri incarnare consapevolmente lo scacco che minaccia ogni artista, quello che oppone l’indicibilità dei contenuti più personali all’urgenza di comunicazione universale. Tu su quale di questi poli ti senti più a tuo agio? Quale universalità vuoi e credi di saper raggiungere?

- All’origine di questo linguaggio c’è una ricerca di aderenza tra il contenuto da trasmettere e segni e sintassi che siano più personali possibile, non per protagonismo ma per necessità di chiarezza nella comunicazione.
E’chiaro che le forme scelte dagli artisti nelle varie epoche sono sempre state dettate dalla necessità della comunicazione che si voleva trasmettere, in parte acquisita per forza di cose (culturali) in parte perché ricercate in modo che fossero segno del pensiero da esprimere. Basta pensare alle diverse scelte stilistiche nell’interpretazione del mondo in evoluzione storica. Con le avanguardie artistiche questo processo si è accelerato fino a giungere alla perdita degli strumenti usuali sfociando nel concettualismo e poi nelle contaminazioni fra discipline. All'inizio degli anni settanta era più che mai urgente affrontare questo problema della ricerca della ricostruzione di termini utili a comunicare. Quando ho scelto di lavorare per alcuni anni nel sociale parlando di problematiche allora attuali, ho cercato di non rinunciare ad alcuni aspetti della comunicazione tradizionale della pittura, della scultura, della composizione perché di fatto le avevo sempre amate e non potevo rinunciarvi, pur apprezzando e vivendo con entusiasmo il fascino del lavoro di artisti come quelli dell’arte povera, della body art, degli happening, di Beuys.
Impresa quasi impossibile.
Un giorno mi trovai sola con un manufatto artigianale proveniente dall’India. Era un semplice sacchetto di tessuto, irregolare nella fattura, sbiadito pur essendo nuovo.
L’umanità di cui era intriso si opponeva a tante negatività del mio mondo occidentale avviato, da un lato verso un’eccessiva durezza in nome di un progresso economico incurante dei danni ambientali e sociali e dall’altro verso un rifiuto distruttivo di ciò che lo aveva caratterizzato come cultura. Decisi che quel sacchetto era un mio lavoro, punto d’avvio al tentativo di analisi e ricerca dei segni e dei contenuti dell’arte che avevano attecchito in me senza che ne fossi consapevole, e di partire da
quel punto per costruire il mio linguaggio pur partecipando agli eventi del momento. Ho coniugato fotografia, pittura e ambiente per poi insistere sulla pittura per la massima parte cercando delle cifre che credo riconoscibili nel rapporto fra segni, colori e spazio oltre che per tematiche e soggetti.


- Quale natura frequenti tu col tuo lavoro, così denso di eco di paesaggio? Quale forma di natura e in che modo ti interessa?


- La natura di cui parlo è prima quella mediterranea che negli ultimi lavori è diventata quella del parco del Sile, fiume di risorgiva che da Treviso si snoda nel territorio fino a sfociare nella laguna veneziana.
Gli aspetti naturali innanzitutto risuonano in me, mi sono familiari, mi danno voce mi lavorano dentro come se tra noi non vi fosse distinzione. Mi sembra la presenza più certa e veritiera. La natura di cui parlo è quella che sopravvive ai margini degli insediamenti umani. Forse è una natura snaturata perché priva della forza del locus horridus dove tutto accade in maniera estrema. Quella natura che può essere nemica, dalla forza che senza precauzioni non è sostenibile. Solo l’armistizio con essa può permetterci di guardarla, di parlarne, di ricevere ispirazioni poetiche… con il coltello dalla parte del manico si può essere magnanimi e credere di amarla. Ho sentito il fascino di pensieri filosofici: la natura può essere emanazione del divino, può essere forma del divino, può essere autonoma, può essere oggetto di scoperte affascinanti con la geometria e la matematica, con le scienze della mente e dello spirito. Ciò che conta è il dialogo con essa e, quindi, con noi stessi. E’ una realtà imprescindibile. Nel vivere quotidiano può non avere posto eppure ne siamo parte. La si può cercare per immergervisi come romantici in piena tempesta oppure osservarla con distacco razionale, sottomettersi o sopraffarla con criminale organizzazione, cercarne la benefica presenza consolatori…o ancora, esserne preda e strumento per la sua glorificazione. La verità è che in me prende voce quando mi sento disponibile all’ascolto e spesso mi parla d’arte.


- Il segno e il colore sembrano ritagliare spazi fisici e mentali molto distinti, nella tua ricerca e persino in ogni singolo lavoro. Di quali atmosfere ci parlano, da dove vengono e come decidi di alleggerire o appesantire ogni regione delle opere?

- Questo accade perché non dipingo dal vero. Assimilo la vita del fiume e delle sue sponde, degli esseri che la abitano, dell’aria e del cielo che la ricoprono e poi la rielaboro, dopo decantazione, diventa un essere a sè che prende vita tramite pennelli e colori. La pittura si alleggerisce forse come accade alle nuvole che si smaterializzano per riformarsi un po’ più in là. È incredibile quanto grandi siano gli eventi che dal particolare giungono all'’universale: leggeri sfondi, leggere arie, leggere tonalità; sono quelle che nascono qui, che giungono qui, si spostano per migliaia di chilometri e vengono respirati da innumerevoli esseri e forse ritornano come gli uccelli di passo che si riposano per qualche tempo in questo sito, riconoscibili similmente allo svasso tuffetto che vedo dalla finestra dalla primavera all’autunno da circa tre anni. Le persone che passano…non le guardo ma le recepisco. Trovo che siano le stesse che vivono nelle pitture murali, nelle tele e nei marmi da tanti secoli.


- C’è una leggerezza apparente, persino un po’ naif in molti tuoi orizzonti. Quanto di apparente resta da raccogliere? E cosa invece di meno lieve si nasconde sotto quel tratto leggero che sembra tradire inquietudine?

- Trapela un’inquietitudine dovuta alla consapevolezza dell’accerchiamento che minaccia l’oasi che è metafora della preziosità delle nostre vite pronte a scomparire come le ere, come le stelle, come i tempi dei tempi.


- Vite pronte a scomparire... consapevolezza dell'ineluttabile cui ogni opera d'arte tragicamente si oppone come storia che può rimanere. Questo mi porta a chiederti che ruolo ha l'arte per te e che ruolo credi che abbia nella società?

- Il ruolo dell’arte è un ruolo necessario, per me come per la società. La società sembra non poterne fare a meno per tutti i motivi che conosciamo bene: valori morali, estetici, storici, filosofici, religiosi, di libertà di espressione, di multiformità ma anche per motivi strumentali, economici…


- Questo nostro scambio è nato di fronte alla mia sensazione che le caratteristiche di personalità nel tuo lavoro rendessero vacuo ogni tentativo di cristallizzazione in un testo critico. Cosa pensi della critica?

- La critica ha una funzione necessaria per decifrare il significato dell’arte, capire la genesi del fare degli artisti, capire gli apporti significativi per l’individuazione di nuovi punti di vista o l’ampliamento dei saperi...