ANNAMARIA IODICE

NAN-MA-IO e il Rio de la Plata

di Roberto Vidali




Nella stanza Vaticana dedicata alla filosofia, Raffaello ci tratteggia Platone nella figura di un vecchio austero, nobilitato dalla barba fluente, con l’indice rivolto verso il cielo: un semplice cenno sorregge e stigmatizza il senso complessivo di tutto il suo pensiero. Lì, dove la luce pulsa alla sua massima intensità, viene indicata la sede originaria di ogni forma e di ogni saggezza, poiché nell’alto dei cieli - in un luogo che all’uomo non è dato raggiungere con la fisicità del corpo e gli è possibile immaginarlo solo con la sua mente - si identifica l’immanenza della parola divina e, quindi, della creazione tutta. Con quel semplice cenno si vuole, quindi, affermare che l’atto della creazione ha fissato una materia primordiale, un archetipo, una matrice originaria, da cui poi, via via, sono stati generati i mondi e la vita che li ha ricoperti. Questa entità perfetta, iniziatrice della corsa del tempo, è una forma pura per eccellenza, un qualcosa che non teme la corruzione del mondo: è la manifestazione dello spirito divino. In Platone è la sfera, forma pura per eccellenza, nella Bibbia è il fiato divino. Si assiste, quindi, a un transito tra origine e sviluppo, in effetti a una mediazione tra incorruttibilità e corruttibilità. Ci sono gli dei sovrani e ci sono gli umani chiamati a glorificare la loro opera. In mezzo gli artefici, per un terzo umani, per un terzo divini, per un terzo diabolici, proprio a causa di quella grazia che gli è concessa in esclusiva e che tende all’inganno, alla confusione, all’artifizio.
Da questa premessa, deriva l’ostracismo di Platone nei confronti delle arti imitative (in primo luogo la scultura) a lui contemporanee, colpevoli di condurre i giovani sulla strada dell’inganno consapevole.
Se si volesse essere pungenti si andrebbe ad affermare che in realtà Platone è un brontolone fuori tempo, un nostalgico che guarda con simpatia alla rigidità arcaica del Kouros di stile dorico e alla frontalità della statuaria egizia, e proprio per questo non riesce a conformarsi ai modi suasivi ed erotici avviati, nel pieno fulgore della cosiddetta età classica, da Fidia e in seguito accentuati da Prassitele e Lisippo.
Platone si esprime con un esempio: ci parla di letti e tavoli, e ci dice che molti sono gli artigiani capaci di costruirli. Questi oggetti sono utili all’uomo e di ognuno di essi esiste un prototipo (una matrice per così dire) soprannaturale, perfetta, ideale; oggetti che l’uomo non può rifare, ma solo imitare. Prosegue, allora, affermando che se il letto dell’artigiano sta al secondo posto nelle categorie del pensiero, al terzo viene quello dell’artista, poiché lo realizza procedendo dal manufatto e non dalla matrice originaria. Risulta essere pertanto prodotto ingannevole e per nulla veritiero. Potremmo quasi azzardare: generato senza possibilità di generare.
Così conclude: “Uno è quello della natura, uno è quello costruito dal falegname, uno è quello foggiato dal pittore”. Le mille invenzioni e sottofrazioni dei singoli designer erano ben di là da venire.
In altro luogo ci viene narrato di Teuth, il dio egizio delle arti, e di come egli insegnò la scrittura agli uomini e di come il faraone ricevendo questo dono facesse notare che esso in sé conteneva anche un aspetto negativo: i giovani, abituandosi alla scrittura, perderanno la capacità della memoria. Di rubriche, vocabolari, computer e agende elettroniche, ovviamente, ancora nessuna traccia. Bisogna rammentare che all’epoca in cui sorse questo mito si era ancora esercitati nella tradizione orale, quando il dotto parlava a braccio, con il solo ausilio di “teatri di memoria”, di tecniche capaci cioè di fissare nella mente tutti i punti di un discorso. Altro che pagine dattiloscritte da far scorrere tra le dita! Come d’altra parte potevano sorgere e svilupparsi le arti della retorica e della dialettica senza l’ausilio di queste discipline? Discipline faticose alle quali i pedagoghi costringevano gli allievi fin dalla più giovane età.
Ma Platone viveva già in un’epoca di crisi, e sebbene sia il fautore di una grande utopia politica, non è conscio fino alle ultime conseguenze delle sue stesse parole.
Così scrive nel Fedro: “Chi crede di poter tramandare un’arte affidandola all’alfabeto e chi a sua volta l’accoglie supponendo che dallo scritto si possa trarre qualcosa di preciso e di permanente, deve essere pieno d’una grande ingenuità... Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio”.
Non si rende conto il sommo filosofo che la pittura, proprio grazie al suo assordante silenzio, potrebbe incarnare il luogo della vera sapienza, il luogo degli enigmi, dei quesiti irresolubili. Un colore, una linea, possono sì ingannare il cuore degli sciocchi perché li si “credono reali mentre non lo sono”, purtuttavia non suona ciò come i pidocchi di Omero? Lo sciocco è sempre disposto all’autoinganno senza nessuna possibilità di redenzione, mentre la pittura, al pari della Pizia, potrebbe instradare sui binari dell’interroga te stesso, grazie al potere della suggestione artificiale.
E veniamo al nodo del problema.
In Grecia, nell’arco di cinquant’anni, tre figure di filosofi si susseguono: Socrate, Platone, Aristotele. Ognuno di loro è rapidissimo termine di un sommovimento radicale. Socrate è ancora l’ultimo rappresentante di una stirpe illuminata, è un saggio che nulla chiede alla vita e che non teme la morte. Egli è il saggio che ancora porta in retaggio le antiche e oscure profezie, le manie divine; è ancora conscio che la saggezza si trasmette a voce, dialogando, poiché qualsiasi affermazione testuale ha bisogno di interpretazione e nessuno è ancora in grado di penetrare la parola (criptica) senza il sostegno di un maestro. Parimenti nessun testo ci viene tramandato per sua mano. Platone, che di Socrate fu discepolo, chiude un’epoca, e di libri, invece, ne scrisse molti. Egli però non incarna più il ruolo del sapiente: egli è un filosofo e si pone pertanto in quella terra di mezzo che si fa transizione tra il passato e il futuro. Nei suoi libri aggira l’ostacolo, proponendoci gli argomenti in forma discorsiva, quasi a voler conciliare il dubbio con l’affermazione veritiera della discussione. Il sistema dialettico, che qui prende corpo, è ovviamente uno stratagemma che per un verso vuole testimoniare un momento storico accaduto (sembra quasi di udire l’affermazione: “Io c’ero, e questa dimostrazione l’ho udita con le mie orecchie”), per l’altro concede i primi passi al dubbio e alla trattazione timorosa prima di giungere alla conclusione all’apparenza rigorosissima.
Cerchiamo di comprenderci. Oggi si pensa che un libro sia uno strumento per giustificare, difendere, combattere, esporre o illustrare una dottrina; nell’antichità si pensava che un libro fosse un surrogato della parola detta. Ritorniamo nuovamente al passo di Platone dove si dice che i libri sono come statue; sembrano esseri vivi, eppure quando li si interroga non sanno rispondere. Ecco perché il dialogo platonico, con la sua pretesa di esplorare tutte le possibilità del tema dato, fu un’invenzione plausibile e astuta, ma non un fondamento di verità.
Platone forse non si rende conto che la scrittura è identica al disegno del pittore: ambedue confinano col regno delle ombre demoniache e possono gettare nella confusione il neofita, perciò il suo è un lapsus freudiano: il pittore viene condannato, mentre la reggenza del governo ideale spetta ai filosofi, unici detentori della purezza del logos.
Sarà Aristotele a iniziare un’epoca nuova, cancellando ogni dubbio, e avviando la prassi di una scrittura sistematica, basata sulla pretesa che il concatenamento dimostrativo possa ottemperare a una rigida sequenza numerica. Il sillogismo diverrà così, con i suoi tre passaggi, il coronamento strategico della dialettica, allo stesso modo in cui la metafora si tramuterà in una specie di pennello della lingua.
Tuttavia, l’intreccio deve obbligatoriamente continuare, giacché il confronto della nostra coscienza con il fare della pittura attraversa la nostra esistenza: non si tratta di un problema epocale, né di un ragionamento filosofico o di civiltà, è invece nella prassi della cose: si tratta dell’essere umano, dei suoi umori, dei suoi sentimenti, della sua condizione priva di senso o piena di senso, ben prima che questa diventi pigmento ceramico o stesura acquarellata. Per dirla in altro modo, parleremo di scrittura del pennello come registro del sentimento, di scrittura del colore come rubrica quotidiana. Qui, al cospetto di questa pittura tonale, atmosferica, perlacea, profetica, non si parla della mancanza di senso o di mancanza dei sensi, dell’energia dello spirito o della presenza Dio, ma del modo d’essere delle cose e del come l’essere animato si pone davanti alle cose, sia esso uomo, donna, animale, albero o filo d’erba. Le cose possono apparire assurde, poiché sono inerti; per così dire non si muovono o non rispondono ai nostri sentimenti e ai nostri quesiti: esse sono come sono: non hanno storia, non sono nel tempo se non quando s’inseriscono all’interno di una filiera manipolata, artigianale o artistica ci viene spontaneo dire. In primo luogo ciò corrisponde a un’affermazione dell’uomo, della sua abilità, della sua manualità; in secondo luogo è un modo di dar senso alle cose visto che la materia conclude la sua corsa là dove l’uomo la fa concludere in una forma finita, sia questa una tela dipinta o le ante di una credenza. Il rapporto tra la trascendenza e la conoscenza profonda dei materiali conduce quindi all’indagine ontologica, quella che dà senso umano alle cose del mondo, agli affetti, ai giochi di relazione, all’inganno consapevole.
Si tratta, of course, di cose in formazione, di corsi e ricorsi, di segni che ritornano, di sentimenti che si formulano diversi e uguali nei secoli dei secoli: unica dimensione accettabile di una condizione autentica. Autentici, in qualche modo, se rimangono, banali e inutili se scompaiono. Un io che diventa collettivo, un io che si fa sempre più grande fino a esplodere, inseminando il terreno circostante. In questo senso la conservazione gioiosa e festosa del segno è la preoccupazione incessante dell’artista e la narrazione ne è l’incarnazione non più evitabile. Nel senso più profondo ne diviene una interpretazione autentica, in senso superficiale ne diviene una falsificazione, cioè una espressività soggettiva, animalesca fino al parossismo, dai radicati odori espressionisti, grondante vapori alcolici e pigmento raggrumato. Il passaggio da un livello basso a uno successivo, più alto, non corrisponde semplicemente a un processo sperimentale di affinamento o di perfezionamento della tecnica posseduta, bensì a uno scarto ovvero alla necessità di accettare l’angoscia quale contributo dell’esistenza. È ovvio, con il rischio di perdersi, di annullarsi, di scomparire. Ebbene, non sta qui, in questa grande sfida, il compito dell’artista che si è fatto santo? Non è forse un’imposizione ineluttabile quella di accettare il rischio, di vivere la perdita come una salvezza dell’uomo? È questa un’esperienza del tutto che il saggio addomestica per annientare quella stoltezza del nulla che tanta parte ha avuto all’interno della cultura occidentale: l’estremizzazione di un granello di polvere che si credeva pari al flusso cosmico; il cammello colpevole che pretendeva di poter passare attraverso la cruna di un ago; la presuntuosa sopraffazione dell’immagine da parte della parola. Il tutto è parte di quella vanagloria che appartiene alle leggi dei grandi sistemi, che con la vita di tutti i giorni non hanno affatto relazione: troppo piccolo, troppo grande, chi lo sa? Mancano le fondamenta, i piloni del ponte sono crollati, la zattera su cui aggrapparsi si è spezzata sugli scogli: quello che conta è non farsi sopraffare dai cattivi sentimenti e avere la capacità di abbandonare lo spirito del superuomo per istrada, visto che conduce solo a esiti ciechi, a strade senza ritorno. Così l’arte non dovrà lasciarsi ingannare dalla propria forma, ha l’obbligo, all’opposto, di andare oltre, sfuggendo a ogni definizione, a ogni teoria, a ogni corrente o pensiero dominante, per ritornare alla fonte o matrice originaria. È questo il nostro caso ed è anche la terza volta che la copula entra a inizio di pensiero, e non può essere un caso: essere o apparire, appunto, uno e trino, in utile rabboccatura.
Un incipit, quindi, votato alla definizione dello spirito, ma anche alla tolleranza non premeditata. Il nulla non può più avere luogo: il nulla deve essere circoscritto così come l’esempio negativo o demonico deve essere costretto al silenzio. Perché esaltare la malattia, perché sostenere il peccato, perché evidenziare la difformità o il mostruoso? Che la guida a sostegno di questo perseverare su strade sbagliate sia un sentimento di sfiducia o di codardia? La direzione può essere invertita? La prospettiva può essere modificata? C’è possibilità di redenzione? Come spiegare quello che si è? Quale valore ha il cambiamento?
Tutti questi sono quesiti che affiorano dalla pittura dell’evanescenza, da questa pittura della conquista, da questa pittura della rivalsa verso un mondo che non potrà finire quando lei (l’immagine) e io (la parola) non ci saremo più.