un percorso attraverso il colore
Autodidatta, ho cominciato a dipingere dalla pubertà… D’altra parte è naturale per chi come me, fiorentino di nascita, ha passato tutta l’infanzia nella campagna toscana: paesaggio bellissimo, non solo per dono naturale, ma perché costruito ed educato dalla ragione, dalla volontà e dalle mani dell’uomo. Un paesaggio dolce, equilibrato ed un orizzonte ondulato, quasi progettati e circoscritti dalla nostra misura in cui il potere umano sembra non avere limiti. Per un pre-adolescente, che già di per sé si sente immortale, vivere questa consapevolezza è un’esperienza di onnipotenza e forza unica, forse indescrivibile a chi non l’ha vissuta nelle fibre più intime della propria carne…. Qui dipingevo, innamorato della forma della materia paesaggistica stessa: di quell’ambiente paesano o campestre che mi infondeva sicurezza di infallibilità, imitando infantilmente quei moduli provinciali, a me domestici e familiari, di Rosai e dei post macchiaioli.
Poi il trasferimento traumatico a Milano ed in Lombardia, allora vissuti come alieni ed ostili, in cui le strutture oppressive urbane caotiche e verticali, la morte dei colori e degli odori a me familiari o gli sconfinati ed annacquati orizzonti padani rappresentavano la negazione di quella consapevolezza della possibile armonia generata dal totale controllo razionale dell’uomo sulla realtà. Da questo distacco nei confronti di un ambiente che rifiutavo e dalla chiusura introspettiva, si sviluppò un linguaggio pittorico che produsse una progressiva metamorfosi dell’oggetto rappresentato, fino ad un suo completo disfacimento attraverso una espressività astratta dai violenti contrasti cromatici, oltre la quale per me non era più possibile procedere. Da lì un lunghissimo silenzio espressivo.
…Ma Milano e la Lombardia (a cui devo tutto quello che oggi umanamente sono), oltre la scorza di una apparente fredda indifferenza, hanno un’intima bellezza ed una dolcezza (essenzialmente fatta dai valori umani e di accoglienza tipici della sua gente) che progressivamente ti conquista e ti fa innamorare. Così fu per me. Si sviluppò una trama di rapporti di amicizia e di compagnia che riconciliò progressivamente le mie conflittualità e che evitò che fossi trascinato verso un individualismo ed una solitudine alienanti.
Grazie a questa trama di rapporti, Milano è stata la scuola buona ed il grembo materno che mi ha formato umanamente e professionalmente: divenendo casa, famiglia, comunità di incontri vivibili e ricchi di suggestioni. Fu a questo punto che la voglia di dipingere risorse negli anni ’90 spontanea. In particolare due persone sono state fondamentali: il pittore americano William Congdon , che avevo precedentemente incontrato come mio paziente e che così tanto mi ha dato in termini di stile e di “cuore” artistico, che lo considero il mio maestro. Ma soprattutto è Michela, mia Moglie che mi ha stimolato a riprendere dopo tanti anni a dipingere, dandomi il coraggio con semplicità ed umiltà di guardare dentro alla misteriosa provocazione che la creatività rappresenta. Poi progressivamente la passione, tutta assorbita nel quotidiano della professione, si fece lontana, l’occhio distratto e la creatività sterilizzata in un altro lungo periodo di silenzio e di cecità espressiva.… Infine come una sorta di Epifania, una nuova rigenerazione creativa. Anche questa grazie ad un incontro concreto, apparentemente casuale. Portato a visitare, quasi controvoglia da un’amica, la realtà Monastica Cistercense di Valserena rimasi folgorato dalla capacità di stupore per la vita e dalla gioia operosa e costruttiva di cui queste monache sono capaci attraverso una vita essenzialmente contemplativa. Cominciai a percepire la realtà in una maniera completamente diversa, come se lo sguardo rinascesse nuovo. Per la prima volta, da quando ero bambino, assaporavo stupito l’intimo fascino della realtà che ci circonda, ne compenetravo l’essenza, insomma mi accorgevo della presenza vivida delle cose, comprendendone finalmente l’intimo linguaggio e la loro consistenza. Da questo nasce oggi il mio modo di dipingere: sicuramente istintivo incolto ed ingenuo come è tipico di chi autodidatta scarseggia di tecnica accademica. Una pittura mai dimentica dell’oggetto, materica, ed impressionista (intesa come racconto dell’ impressione, sia essa pacificata o drammatica, che il reale lascia nel cuore dell’uomo).
All’inizio di ogni opera c’è una passività assoluta. Infatti il momento creativo sorge dall’ascolto stupito della realtà osservata fino alla sua intima consistenza, esiste poi un lungo silenzio, finché la vivida emozione generata da questo accorgersi del reale, si attenua lasciando nel cuore la sua impronta/impressione. É a questo punto finalmente che sorge la visione di un’immagine d’insieme come una promessa di ciò che l’opera diventerà. Talvolta invece questa apparente passività e ricettività genera un vissuto così intenso e prepotente da essere inesplicabile nella sua interezza attraverso una comunicazione verbale, tale esperienza, ricolmandomi totalmente, fa sorgere il quadro: Inizia, quindi, la costruzione.
Ogni opera non è mai totalmente progettata e precostituita, ma, similmente all’embrione, man mano che il lavoro procede, diviene inaspettatamente definita e liberamente si genera, quasi che essa stessa nel suo prendere forma e vita mi guidasse inaspettatamente attraverso sentieri non previsti fino al suo compimento.
Dipingo quindi lasciandomi condurre da ciò che si forma: prima di tutto c’è il supporto (pannello o tela), dove le prime linee essenziali fluiscono nell’abbozzo dell’imprinting originario, poi ecco il colore steso attraverso una sovrabbondanza di materia pittorica, dalla quale emergono isole intatte della superficie del pannello, perché linee, masse materiche e superficie del supporto interagiscano come in un dialogo.
Amo la spatola perché con essa il colore diviene massa corposa, priva di particolari inessenziali: non l’oggetto o la forma razionale innanzitutto, ma è il colore/materia che diviene massa e la massa si organizza in strutture. Poi ancora la spatola o il punteruolo solleva, regola o incide e sabbia o polveri dorate o argentee (vili e nobili) sono cosparse sulla superficie pittorica per vivificarla, oppure rivoli di smalto liquido vengono sgocciolati, così da separare, come una grata-limite, l’occhio dal paesaggio per renderlo, in questo racchiuderlo, infinito. Da ultimo, come elemento ricorrente, in alto la sfera/astro, sia essa definita o appena accennata, che emerge consolatoria (nonostante ed attraverso le grate/sgocciolature delle nostre inevitabili contraddizioni) come simbolo dell’oggetto del nostro desiderare e segno della nostra consistenza.
Pier Luca Bencini