La perdita del centro

di Ivan Quaroni




«Poiché [l’artista] sa che solo l’ingenuo vive vicino alla creazione, diventa egli stesso ingenuo; la sua creazione diventa ingenuità cosciente. Ma in tal modo essa cessa di essere ingenua, trapassa anzi nel suo contrario: nella suprema raffinatezza»
(Hans Sedlmayr, La rivoluzione dell’arte moderna.).


La ricerca di Samuel Sanfilippo è il prodotto lampante (o forse la conseguenza inevitabile) di due fattori generativi. Uno è la diffusione massiva e popolare di Internet e l’estensione pressoché totale del suo utilizzo in ogni ambito dell’attività umana, l’altra è quella che Hans Sedlmayr ha chiamato, con una fortunata definizione, la “Perdita del Centro”, nell’intento di indicare lo stato di crisi spirituale derivato dall’indebolimento dei pensieri o delle fedi fondanti della civiltà occidentale.
Per ciò che concerne il primo dei due fattori, è possibile affermare, senza ombra di dubbio, che la modalità operativa di Sanfilippo, ossia la pratica di rintracciare e quindi selezionare le fonti iconografiche a partire da quell’immenso serbatoio d’immagini che è il web e, in secondo luogo, il fatto stesso di dare avvio al processo progettuale davanti al monitor di un PC, è una modalità strettamente legata alle evoluzioni tecnologiche della nostra epoca. Ma affermare questo non basta. Non si tratta semplicemente di stabilire che, grazie al computer e alla rete, Sanfilippo è messo nelle condizioni di operare, almeno inizialmente, con strumenti nuovi. Quello che davvero influenza la ricerca dell’artista, e con lui quella di quasi tutti i giovani pittori della sua generazione - quella insomma che Luca Beatrice ha definito “Google Generation” - è piuttosto un nuovo tipo di approccio cognitivo, più estensivo e orizzontale.
Si dovrebbe parlare, anche, di una “My Space Generation” o di una “You Tube Generation”, connotata da un’attitudine inedita a condividere e scambiare informazioni. Ed è questa una forma di pensiero che, in qualche modo, si riflette anche nella rapidità con cui artisti come Sanfilippo hanno imparato a costruire immagini nuove utilizzando materiale già disponibile, scovato tra le migliaia di siti e archivi online, magari rintracciati attraverso la ricerca di una parola chiave su un qualsiasi motore di ricerca. Tuttavia, si tratta di un materiale che, per inciso, non viene ripreso pedissequamente e tantomeno acriticamente, ma è utilizzato come spunto strutturale di una composizione che, una volta finita, somiglia all’immagine di partenza solo nella distribuzione dei pesi e degli ingombri iconografici. Il resto, ossia la trattazione dei personaggi, l’impianto cromatico, l’aspetto semantico e quindi la narrazione, è il prodotto di una visione immaginifica, che permette all’artista di trasfigurare la realtà mediatica (le fotografie trovate su Google), formulando nuove ipotesi interpretative sull’esistenza.
Quello che conta, infatti, è il modo in cui le immagini vengono riplasmate e la funzione che esse assumono, una volta che l’artista le ha, per usare un termine informatico, “formattate” e poi “ricaricate” all’interno del sistema operativo della propria pittura. Ora, senz’altro Samuel Sanfilippo ha una predilezione per le immagini più curiose, bizzarre e a volte persino raccapriccianti della rete. Sceglie, per così dire, i piatti più forti del menù, ma lo fa nella certezza che la morbosità, oltre ad essere una caratteristica dominante del “sentire comune”, è anche il miglior modo di individuare situazioni-limite e di svelare, così, il lato estremo della quotidianità.
L’altro fattore, che ci aiuta a comprendere l’universo pittorico dell’artista, riguarda il sintomatico decadimento delle fedi religiose e ideologiche e la loro mancata adesione al modus vivendi della contemporaneità. Il fatto, cioè, che nelle nuove generazioni vi sia la consapevolezza che le certezze spirituali e politiche, ma anche sociali, siano, nel migliore dei casi, il prodotto di una conquista personale, spesso faticosa, piuttosto che la conseguenza di una trasmissione parentale o istituzionale.
Ciò che lo storico dell’arte austriaco Hans Sedlmayr chiamava “Perdita del Centro” è innanzitutto una privazione di luce e di purezza, da cui deriva un sentimento di smarrimento esistenziale e, quindi, per reazione, il tentativo di avviare una recherche non più onanistica, alla maniera del tempo perduto proustiano, ma immanente, concreta e tuttavia mistica. Mi riferisco ad una mistica che è forse ancora di là da venire, ma che, intanto, aleggia nella fiction dei dipinti di Sanfilippo, dove la santità è davvero un attributo dell’innocenza riferito agli esseri tradizionalmente considerati privi di coscienza, siano essi animali dalle caratteristiche umanizzate o rappresentanti di un’umanità ferina e brutale. D’altra parte, come afferma ancora Hans Sedlmayr, “ontologicamente parlando, l'uomo nello stato di decadenza è al tempo stesso sublime e infranto, grande e miserabile, piacevole e brutto”1.
Nelle nuove tele di Samuel Sanfilippo, che per l’occasione abbandona il piccolo formato per misurarsi con dimensioni più impegnative, gli uomini, le donne, gli animali, i feticci e le icone dell’immaginario popolare diventano soggetti di una nuova epica, di una mitologia urbana che prende corpo tra le pieghe di una realtà ordinaria e banale. Sanfilippo non si limita a proporci una vulgata picta dei rigurgiti iconografici della rete, ma al contrario, ci indica gli aspetti più eccentrici della vita quotidiana, invitandoci a riflettere, tra l’altro, sulle dinamiche della visione. Lo sguardo è, infatti, per l’artista siciliano un potentissimo strumento esegetico, tramite il quale diviene possibile non solo interpretare (e perfino decrittare) la realtà fenomenica, ma addirittura reinventarla a partire dalle sue più bizzarre epifanie. Egli stesso ha affermato che “esistono delle realtà parallele che non sono specificatamente fisiche, ma che possono essere mentali o spirituali, in cui ognuno di noi può assumere forme e significati diversi”. Con le sue immagini folli e sconnesse, Sanfilippo mette in scena la rappresentazione di un mondo intimamente permeato dalla visione e dall’allucinazione, un universo pericolosamente in bilico tra ragione e sentimento, tra ordine e caos, tra verità e finzione, dove è possibile assistere ad eventi incredibili e fare incontri indimenticabili. È il caso delle innumerevoli apparizioni finzionali che costellano le opere dell’artista, a cominciare dal Dart Fader di Guerre Stellari, ritratto mentre è intento nella lettura di capisaldi della cultura pop come Harry Potter ed Hello Kitty, fino a Spiderman, che in La domenica delle palme assume la posa plastica del manneken piss, mentre in un altro dipinto si esibisce, cappellino da baseball in testa e tatuaggio di Paul Frank sul braccio, in un plateale gestaccio da bad boy. E che dire, poi, dell’inattesa copula tra il nostro “amichevole Spiderman di quartiere” e il guru del calembour visivo Maurizio Cattelan, tributo evidente agli amplessi tra fiction e realtà di Giuseppe Veneziano?
Samuel Sanfilippo sceglie quasi sempre immagini esagerate, parossistiche, per sottolineare quanto il mondo reale sia prossimo alla follia e quanto quest’ultima sia, in fondo, uno strumento di liberazione degli istinti primari, ma anche immaginifici dell’uomo. Sanfilippo oscilla tra il prosaico e il fantastico, tra la materia sorda e l’armonia dell’etere, quasi indeciso tra questi due estremi, tra questi limiti entro cui va svolgendosi la vicenda umana. In una parte della sua produzione, infatti, si affastellano le immagini crude, quasi brutali, di Ave Maria, Babilonia, Sacro Cuore, San Filippo, San Benedetto e San Maurizio, dove una sessualità da trivio è abbinata all’allusione verso simboli e icone della religiosità popolare. Altrove, invece, predomina un immaginario lieve, perfino delicato, in cui la realtà fenomenica assume contorni fantastici. È il caso delle aeree visioni di Fuga dal Paradiso, Syd, La discesa dal regno dei cieli e Sopra il Paradiso, dove si avverte una necessità di emancipazione dal piano prosaico dell’esistenza che si traduce in una propensione a librarsi, letteralmente, in una dimensione extra-ordinaria di evasione. Anche se è evidente che tanto la dimensione elevata quanto quella pedestre si equivalgono. Entrambe, infatti, rappresentano la risposta parziale e quindi perfettibile ad uno sbandamento esistenziale, ad uno smarrimento spirituale che è, appunto, la conseguenza di quella già menzionata “perdita del centro”. Una condizione che, mutatis mutandis, può divenire la più congeniale per l’affermarsi di una ricerca individuale libera, non più soggiogata da dettami fideistici o ideologici.