ROMANA ZAMBON

BLUE EFFECT

“Blue has no dimensions, it is beyond dimensions, whereas the other colors are not….All colors arouse specific associative ideas, psychologically material or tangible, while blue suggests at most the sea and sky, and they, after all, are in actual, visible nature what is most abstract”.

(“Il blu non ha dimensioni, è oltre le dimensioni, mentre gli altri colori non lo sono … Tutti i colori suscitano idee associative specifiche, psicologicamente materiali o tangibili, mentre il blu suggerisce al massimo il mare e il cielo, che dopotutto sono nella natura reale e visibile ciò che vi è di più astratto”. Dal catalogo postumo della mostra Yves Klein alla Galleria Gimpel Fils di Londra, 1973)

Nel 1972, ovvero un anno prima che venissero pubblicate le parole sopra questo testo, Daniel Spoerri dedicò a Yves Klein 366 giorni del suo lavoro, per celebrare il decennale della scomparsa dell’amico -nel 1962- a soli 34 anni.

Per tutto il ’72 dunque i quadri-trappola (tableaux-pièges) di Spoerri, le sue tavole cristallizzate e appese in verticale, vennero concepite con un fondale di colore blu. Non di un blu qualunque, ma di un intenso e carico blu oltremare, che richiamasse la tonalità brevettata da Klein nel 1956: l’International Klein Blue. Sviluppato dall’artista francese e dai chimici del colorificio Adam di Montparnasse a Parigi, l’IKB nacque sospendendo il pigmento asciutto in una resina sintetica -chiamata Rhodopas-, fino a ottenere “la più perfetta espressione del blu”, che evocasse appunto “nella natura reale e visibile ciò che vi è di più astratto”. Klein arrivò persino a proporre la vendita di porzioni di cielo, d’aria pura, quella contenuta all’interno di una galleria immacolata e vuota, sezionata idealmente e offerta al pubblico come “zone di sensibilità pittorica immateriale”. In un certo qual modo, anche i suoi monocromi oltremarini, dipinti con spugne impregnate di sensibilità pittorica da restituire agli spettatori, erano da intendersi esattamente come quelle porzioni d’aria: segmenti circoscritti di “vuoto”, di astratto, sublime, in definitiva, di assoluto.

Oltre a essere un grande innovatore, la grandezza di Klein fu quella di riuscire a condensare nelle sue opere inedite -anche dal punto di vista tecnologico-, l’utilizzo fisico e metaforico del colore blu nella storia dell’arte a lui precedente.

Senza soluzione di continuità, infatti, una linea sottile lega le sperimentazioni di Yves Klein a quelle degli antichi Egizi, che per primi ottennero un colore blu “sintetico” diverso dall’indaco, che era di origine vegetale, partendo dalla lavorazione vitrea e usando come base il rame. Un altro esempio di questo raccordo tra Klein e il passato sono le celebri Antropometrie dell’artista, in cui i corpi di modelle nude, cosparsi di IKB, venivano utilizzati come pennelli, per rilasciare la propria impronta blu, come sindoni sia tele immacolate.

Questi eventi performativi, tra i primi esperimenti di Body Art, non possono non richiamare la genesi della storia dell’arte, nata dalle pitture e incisioni rupestri. Si pensi ad esempio alla Cueva de las Manos in Argentina, datata tra i 9.000 e i 13.000 anni fa, in cui mani umane, in positivo e negativo, cospargono la grotta di un color porpora minerale, spruzzato con tutta probabilità attraverso le ossa di animali dai primi cacciatori della storia.

L’impronta completa dei corpi di Klein non è in fondo molto dissimile formalmente da quelle mani, ma una distanza c’è: la sua è un’impronta femminile, più divina che umana, virata dal colore della terra a quello del cielo.

Impossibile riportare qui ogni riferimento che assomma l’opera di Klein, dalla storia dell’arte antica a quella moderna; tuttavia aver citato l’inventore dell’infinito cromatico getta le premesse per parlare del lavoro di un’artista a noi contemporanea, Romana Zambon, e del suo recente ciclo fotografico in cui il blu è protagonista.

Nella serie Blue Effect, infatti, l’artista e architetto milanese immerge paesaggi reali in un bluette non lontano da quello registrato dal grande Yves Klein, e ottiene così delle porzioni di realtà sublimate da questa monocromia artificiale. Dalle stesse parole di Zambon si rileva un’eco della spiritualità cromatica teorizzata da Klein per connotare il suo colore d’elezione: “Il blu è il tono della grande profondità, della calma, dell’infinito, della pace, della serenità emotiva e dell’armonia -commenta Zambon- Il blu, evocando il cielo e il mare, simboleggia per me la spiritualità e la meditazione”.

Anche per Zambon dunque, come per Klein, il blu è associato a ciò che di più astratto e insondabile vi sia in natura, ovvero lo spazio che ci sovrasta -con tutte le valenze simboliche a esso collegate- e ciò che appartiene agli abissi, legati spesso -da Platone a Jung- al luogo sconfinato e misterioso dell’anima. Due nature che coesistono, due spazi che potremmo immaginare al contempo esterni e interni al soggetto, nella loro essenza divina, o viceversa inconscia e oscura.

Non è un caso che la maggior parte dei soggetti ritratti dal ciclo Blue Effect di Romana Zambon siano luoghi di culto, cattedrali, moschee, o città reali, ma dai tratti onirici, come Jodhpur, la “città blu” nel Rajasthan che deve il suo nome alla vernice indaco utilizzata un tempo per dipingere le case dei Bramini, la casta più elevata della società indiana.

Mentre Klein si appropriava fisicamente, dipingendoli del suo blu sintetico, di corpi, tele, ma anche di opere d’arte del passato, come la Venere di Alessandria, rinominata Venere Blu, o la Nike di Samotracia del Louvre, Romana Zambon riveste di blu, grazie alla tecnologia fotografica a disposizione nel XXI secolo, monumenti storici e cattedrali, dando allo spettatore la possibilità di vederli attraverso un nuovo spettro cromatico, in grado di modificarne la percezione.

Un processo di appropriazione, per certi versi simile a quello del maestro francese, ma che nella Zambon annulla la fisicità della mutazione cromatica, che avviene attraverso una conversione digitale, un filtro più astratto rispetto alla vernice IKB.

A contribuire poi al senso di ascesa, di aspirazione verso uno spazio mistico e assoluto, sono le prospettive architettoniche, i sottinsù scelti da Zambon per le sue inquadrature.

L’interrogativo a cui l’artista milanese sottopone lo spettatore sembra dunque essere questo: se il mondo potesse essere filtrato integralmente da un effetto blu, cosa cambierebbe nelle nostra percezione di esso? Sarebbe quindi possibile, a patto di cambiare la “lente” del nostro sguardo, immaginare una totale armonia cosmica?

Ci sono altri artisti della stessa generazione di Zambon che hanno contribuito al dibattito. Jan Fabre, ad esempio, nel 1990 ha rivestito l’intero castello di Mechelen in Belgio con disegni realizzati a penna BIC blu dando vita all’opera dal titolo Tivoli. “Primo perché naturalmente mi piace il colore – ha dichiarato Fabre parlando del suo lavoro monumentale -, il blu è il colore spirituale, la tonalità vibrante e ipnotica degli occhi azzurri, è il tono del cielo senza nuvole, la tinta del velo della Vergine Maria e molto altro ancora”. Il blu primario è dunque sinonimo di purezza, dipinge e rende visibile l’utopia di un mondo “senza nuvole”, reali o metaforiche, un mondo senza la macchia del peccato, ma avvolto nell’uniformità dell’aura turchina della Madonna.

Anche in Fabre non manca tuttavia un’attrazione squisitamente rivolta alla materia prima, nel suo caso l’inchiostro della penna Bic, sinonimo di modernità, come già per Alighiero Boetti, a cui si aggiunge un ricordo infantile. La generazione dell’artista, fu infatti la prima che, tra fine anni ’70 e primi anni ’80, sperimentò la sostituzione del calamaio e della stilografica con la penna Bic. “Secondariamente, continua Fabre, mi piace la qualità chimica dell’inchiostro della penna a sfera Bic blu. Potete vederlo voi stessi nella mia serie di opere The Hour Blue, L’Ora Blu, disegni fatti a penna Bic blu con qualche accenno di verde, viola, rosso e argento. La composizione della sostanza di questo inchiostro contiene una sorta di gelatina argentata, come in fotografia. Ecco perché molti disegni sono fluidi più che fissi. Questi disegni sono sempre in divenire, sono come dei campi magnetici di energia”.

Una rappresentazione di energie e forze cosmiche si ritrova dunque in Klein come in Fabre, e uno sguardo nuovo emerge nei due maestri così come anche nell’opera di Romana Zambon. Corsi e ricorsi, corpi e panorami, percezioni differenti, visioni blu. Potremmo affermare che lo sguardo blu, non sia dunque solo per il pigmento dell’iride turchina, quanto invece sinonimo per alcuni artisti di una condizione sublimata, più vicina all’assoluto, a cui il belga Jan Fabre ha dedicato un’installazione permanente nel suo paese d’origine.

The Gaze Within (The Hour Blue), Lo sguardo interno (L’Ora Blu) sovrasta infatti lo scalone Reale del Museo d’Arte Antica, all’Interno del Royal Museum of Fine Arts del Belgio. Mentre un tempo il luogo fungeva da accesso discreto e privato del re e della regina alle stanze del museo, dal 2013 la scalinata d’ingresso in cui interviene Fabre è divenuta spazio pubblico. Ad accogliere dunque oggi un più vasto numero di occhi, Fabre ha inserito la gigantografia di uno sguardo blu Klein, fisso verso lo spettatore che sta per attraversare un ponte tra il fuori e il dentro, tra la vita e il museo, tra forma reale e pensiero assoluto.

È interessante notare a questo punto l’associazione del blu alla nobiltà o a una condizione sociale elevata anche a latitudini distinte (le case dei Bramini a Jodhpur o l’intensità cromatica del turbante dei Tuareg), così come si può tracciare un’ideale sequenza cronologica di artisti che fino ai giorni nostri hanno impresso al turchese il timbro ideale della spiritualità. Si deve, ad esempio, alla passione di Kandinskij per il colore blu -oltre che all’amore di Franz Marc per i cavalli- il nome del movimento di artisti Der Blaue Reiter, Il Cavaliere Azzurro, fondato a Monaco nel 1903. Secondo gli studi di Kandinskij, infatti, raccolti nel volume del 1912 On the Spiritual in Art, ancora una volta la via verso l’assoluto è lastricata di pittura blu: “più è scuro il blu e più esso risveglia l’umano desiderio per l’eterno”.

Potremmo dire, con un salto di un secolo e le dovute differenze, che le facciate, le cupole, gli interni decorati, ma anche gli alberi che vediamo nelle opere di Romana Zambon esprimono quello stesso senso di astrazione dei cavalli di Marc, e trasportano lo spettatore -attraverso finestre, arcate, scale che compaiono nelle sue inquadrature-, in atmosfere oniriche e fiabesche da Le mille e una notte. I tronchi blu di Zambon non sono però quelli della tavolozza di Gauguin, che vira verso l’allucinazione dopo la rottura del sodalizio con Van Gogh, né hanno nulla a che vedere con i toni lividi del noto Periodo Blu che contraddistinse i quadri di Picasso dopo la morte dell’amico Casagemas.

Le immagini di Zambon sono tutt’altro che cupe, ma trasmettono invece un senso di armonia e benessere emotivo. In esse la figura umana non compare mai, proprio perché i paesaggi ritratti dall’artista non sembrano realmente abitati, quanto invece appaiono più come luoghi mentali, ideali, sospesi nell’Ora Blu di Fabre e visitati solo attraverso uno sguardo interiore, profondo e meditativo.

Potremmo dunque concludere catalogando quello della Zambon come a kind of blue (un tipo di blu) tra la vasta gamma disponibile, inserendo il suo utilizzo delle tonalità marine o celesti nel solco di una tradizione ininterrotta che identifica il blu con la spiritualità, il misticismo, che si rintraccia spesso dell’iconografia mariana, come accennato anche da Jan Fabre. La Madonna velata di azzurro infatti si ritrova costantemente in Occidente, da Giotto ad Antonello da Messina, da Raffaello ad Ingres.

Con una sorta di calembour cromatico, reso possibile dalle nuove tecnologie, Zambon trasforma la sua mappa di luoghi in variazioni sul tema della Moschea Blue di Istambul, dove il colore prevale realmente, per effetto delle piastrelle in ceramica turchese che rivestono le pareti e la cupola del tempio, accompagnando l’immersione del fedele nella preghiera. Quella stessa atmosfera suggestiva e surreale della Blue Mosque viene acuita artificialmente nelle opere di Romana Zambon, che arriva alle medesime conclusioni di grandi artisti, dopo una personale e accurata ricerca sulla simbologia del colore blu nel corso della storia e delle culture del mondo.

E se è vero che il blu spirituale, surreale, mistico, è molto presente anche nello Spazialismo di Lucio Fontana, dai Concetti Spaziali ai neon, sembra incomprensibile il fatto che alla costellazione ideale costruita fin qui sfugga un artista la cui intera carriera si è concentrata sulla rappresentazione dell’assoluto ovvero Mark Rothko. I quadri blu dell’astrattista americano, seppur esistenti, sono infatti piuttosto rari. Tuttavia, quando lavorò alla sua ultima opera, la Rohko Chapel di Houston, la tonalità dominante che Rothko scelse per le grandi tele all’interno della cappella fu quella del buio. Per i suoi telerò utilizzò una tavolozza monocroma, intrisa di nero, porpora, viola prugna, ma anche di un’altra sfumatura a sua disposizione in quel momento estremo della sua esistenza: il blu notte. Rothko, già gravemente malato e depresso, di lì a poco si sarebbe tolto la vita. Chi visita però quella cappella, pensata per far coesistere tutte le religioni pacificamente, non prova un senso di angoscia, ma altresì di pace e serenità, e viene spinto da un tale ascetismo cromatico a interrogarsi sui grandi temi dell’esistenza.

Forse è proprio questo il fenomeno misterioso innescato dal blu e descritto da molti grandi artisti, il Blue Effect indagato da Romana Zambon: il blu è il colore del cielo senza nuvole. La notte quindi è impastato di stelle. Perciò è l’unico colore che non si può spegnere.

di Beatrice Benedetti

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