SARA BAXTER

KING KONG

Sara Baxter, con una doppia giravolta che è tipica degli artisti autentici, mette al centro della sua opera non il “popolare” o il “mostruoso” in sé, ma quello che un tempo il nostro cervello era abituato a conoscere, e ri-conoscere, come tali, ma che oggi, grazie a quel lungo processo cui abbiamo testè accennato, è divenuto invece parte integrante del nostro vivere quotidiano, e che per questo motivo ci è divenuto prossimo, familiare, amico: e in quanto tale ha perso ogni parvenza vuoi di “basso”, triviale, vuoi terribile e di spaventoso. Lo “spaventoso”, il “ludico”, il “popolare”, il “bizzarro” e il “familiare” sono diventati, nella produzione varia ma estremamente coerente dell’artista di origine inglese naturalizzata in Italia, una sola categoria cui fare riferimento, un mix nel quale è divenuto impossibile riconoscere le singole origini di ciascuno, discernere ciò che un tempo sottintendeva un significato simbolico da quello che, al contrario, ne sottintendeva invece uno diametralmente opposto. L’artista inglese è stata capace, con un gioco apparentemente semplice ma in realtà di grande raffinatezza e lucidità intellettuale, di mutuare non solo la nostra propensione per il ludico, il bizzarro, il divertimento goliardico e spiazzante che non conosce – e non vuole più conoscere – distinzioni tra alto e basso, tra popolare ed elitario, tra colto e triviale, e così via; è stata capace, dicevo, non solo di far propria questa tendenza tipica di questi decenni ad assorbire onnivoramente tutto, senza distinzioni di genere o di stile, ma anche di utilizzare linguaggi e sguardi (intesi in senso letterale, ovvero come modi di vedere le cose) provenienti da galassie diverse da quella artistica, come quella del cinema, del mondo del consumo, della pubblicità. Ecco allora, nella sua produzione passata, le celebri lattine, retaggio delle Campbell’s di warholiana memoria, oggi divenute però simboli di identità perdute, quelle dei supereroi, divenuti essi stessi gioiosa e divertita parodia di se stessi, reperti archeologici di una postmodernità che nonostante tutto dura ancora a morire, icone nostalgiche di un mondo, quello del consumo e della fiducia in una (oramai improbabile) salvezza dell’umanità, seppure da parte di altrettanto improbabili “super-uomini” in calzamaglia e mantello, cui nessuno può più onestamente credere.

E cosa c’è, allora, di più iconicamente simbolico di ciò che un tempo noi stessi potevamo avvertire come mostruoso, o spaventoso, e che oggi è invece la quintessenza stessa del ludico, del piacevole, del giocoso, e anche del familiare, se non l’immagine di King Kong, il mostruoso gorilla proveniente dall’inesistente e sconosciuta Skull Island, che Sara Baxter, con un raffinatissimo e seducente gioco linguistico, porta inaspettatamente al centro della sua serie più recente, caricandolo però di una luce che rimanda alla grande pittura barocca, e di una plasticità che sembra, consapevolmente o meno, fare il verso alla statuaria plasticità dei kouroi greci? Se poi si aggiunge il fatto che l’artista non riprende affatto la fisionomia del King Kong cinematografico, bensì quella di un semplice giocattolo, un pupazzo per bambini che ne ricalca le fattezze, ecco che il rovesciamento e rimescolamento di senso tra classicità, senso del tragico, retaggio dell’antico stupore da luna park e da fiera degli orrori ed echi dell’armonia perduta della forma arriva al suo punto più estremo, provocando quel cortocircuito linguistico e formale che costituisce spesso uno degli elementi più interessanti e seducenti della nuova arte contemporanea.

di Alessandro Riva

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